Sotto la pelle delle immagini

«Diffido sempre di quel che vedo,

di quello che l’immagine mi dimostra,

perché immagino quello che c’è oltre,

e cosa c’è oltre l’immagine al solito è ignoto a tutti.»

Michelangelo Antonioni

L’ampio orizzonte espressivo, nel quale ha agio di trovare una propria identità la pittura di Roberto Miniati, appare cronologicamente ascrivibile a un contesto esteso fra la seconda metà degli anni Dieci e i due decenni successivi alla conclusione del secondo conflitto mondiale. Più che al peculiare codice futurista di Balla, occorre infatti risalire – quale sorta di origine plausibile e fondante per quanto concerne la complessa esegesi del lavoro di Miniati – al Costruttivismo russo sviluppatosi negli anni successivi alla Rivoluzione del 1917. Entro il più vasto ambito delle correnti analitiche e razionaliste, accanto al suprematismo di Malevič, al neoplasticismo di De Stijl e al funzionalismo del Bauhaus, ecco dunque collocarsi una simile «poetica» – detta, appunto, costruttivista –, rintracciabile, oltre che nelle esperienze polacche (W. Strzeminsky, K. Kobro, H. Stażewski), ungheresi (L. Kassák, L. Moholy-Nagy) e francesi (Abstraction-Création), anche nell’attività di due artisti potentemente attivi per gran parte del ventesimo secolo: Max Bill e Joseph Albers.

Tuttavia, qualsiasi riferimento storico-critico si scelga di adottare, qualunque figura o esperienza si pensi di citare, tutto, al solito, diventa immediatamente superficiale e pretestuoso in rapporto all’opera di Miniati, abitata com’è, fra l’altro, da evanescenti riflessi esistenziali, stati d’animo appena manifestati, un amore viscerale per la pittura, intesa come dominio di espressione di se stesso e di una contemporaneità traslata e astratta in una dimensione universale.

C’è, soprattutto, in quel sostrato intimo, che echeggia in lungo e in largo fra i ricercati accordi cromatici di un pittore per natura incline a un profondo scavo introspettivo, il sapore di una partecipazione sentimentale alle cose della vita pervasa da liquida poesia, la medesima che fluisce, sotterranea, oltre l’apparenza ingannevole di trame e concatenazioni geometriche invero allusive di una realtà interiore densa di assilli  e trepidazioni, incanti e smarrimenti; l’essere ciò che si è per davvero a dispetto dell’idea che di noi hanno maturato gli altri.Resiste, allora, sotto la pelle delle immagini partorite dall’estro e dall’immaginazione di Miniati, un’urgenza febbrile talvolta messa in relazione con le inquiete meditazioni visionarie di Serge Poliakoff, altre con gli abbandoni lirici di Afro e, finanche, con gli ardori segnici di Capogrossi. Ma altro, molto altro, emerge, oggi, al cospetto di un esercizio pittorico esclusivo e ormai indipendente, tanto da richiamare alla mente, quale proprio sublime compendio, questi toccanti versi di Ungaretti: «Ogni colore si espande e si adagia / negli altri colori. / Per essere più solo se lo guardi.»

Giovanni Faccenda