OLTRE L’INVISIBILE: CON MINIATI NEL GIARDINO DELL’ASTRAZIONE

« È necessario vedere, non solo studiare,
confrontandosi con la storia, subendola forse.
In quello che facciamo c’è sempre qualcosa di quello che ci ha preceduto.
Noi siamo la piccola punta di un iceberg enorme che racchiude tutto il
nostro passato.
Il pennello, mi piace pensare, non copre ma scopre.
Oltre l’invisibile dove forse si ricomincia a vedere noi
stessi.»
La grandezza del passato, che sovrasta e sostiene; l’invisibile come soglia oltre la quale gettare lo sguardo, per restituirsi una nuova visione; il pennello come strumento per scavare nel profondo con il colore: sospese sul filo di evidenti suggestioni psicanalitiche, le parole con cui Roberto Miniati si racconta portano subito ad avvicinarsi al suo lavoro intuendo che, dietro e intorno alla pittura, per lui c’è tanto altro. Innanzi tutto c’è cultura, conoscenza, attenzione per la storia; poi ci sono memorie, consapevolezze, desideri, necessità sincere.
La sua scelta di esercitarsi nell’ambito di un linguaggio ben definito, rigorosamente astratto seppur mai troppo rigoroso, risponde alla conquista di una dimensione aniconica, lontana dal racconto descrittivo e più incline alla riflessione esistenziale, in cui il pittore sente di potersi conoscere e riconoscere. In un certo senso, si potrebbe dire che per lui l’astrazione è un luogo divenuto famigliare, uno spazio conosciuto del pensiero, nel quale inoltrarsi alla continua ricerca di una sorpresa, di una rivelazione.
A proposito di luoghi famigliari, riflettendo sulla tradizione del giardino il grande paesaggista Gilles Clément ha osservato che molte civiltà – in Oriente come in Occidente – hanno concepito il giardino come tramite per svelare l’invisibile. In effetti, se ragioniamo in analogia con quanto avviene per l’arte visiva, l’attenta ricerca di equilibri tra forme, colori e strutture compositive su cui si fonda l’idea stessa di arte del giardino non è che un modo per allontanarsi dallo stato di natura del paesaggio: un artificio del pensiero che non vuole fermarsi all’esistente, ma muove alla ricerca di un’idea, di una visione globale del mondo capace di superare la realtà spontanea. « Si tratta di collocare l’Uomo nel Cosmo, e non nella Natura», scrive Clément, offrendoci una definizione che, oltre a cogliere con esattezza il senso profondo del creare giardini, sembra individuare con mirabile sintesi la vocazione dell’arte astratta.
Il “giardino dell’astrazione”, dunque, Miniati lo percorre da tempo, ispirato fin da ragazzo dalla visione delle mostre, dalla conoscenza degli artisti, dal desiderio di avere accanto a sé le opere che ama e di cui sa comprendere a fondo la poesia, per alimentare la propria ricerca espressiva con l’esempio e la riflessione sui grandi modelli: dai pionieri dell’avanguardia europea agli americani, fino alle straordinarie personalità italiane del secondo dopoguerra. Modelli che non divengono mai ossessioni ma che, acquisiti come patrimonio nel profondo, si compenetrano o si alternano, rivelando una varietà di lezioni ben comprese alle spalle di nuove opere che aspirano a una totale indipendenza. Così, nei suoi quadri, si legge la consapevolezza di tutti i fondamenti della pittura astratta, dalla composizione al ritmo, dall’accordo cromatico al segno, dalla forma ripetuta al possesso del rapporto tra spazialità e superficie, ma non si trovano repliche di altre opere.
Alla luce di questo, ci sembra particolarmente significativo condividere con Miniati l’idea di presentare il suo lavoro accostandovi – come una sorta di premessa visiva – una piccola selezione di opere dei maggiori astrattisti italiani nel secondo dopoguerra. Personalità che appartengono alla storia dell’arte del XX secolo e che, in un’accezione delicata e totale, appartengono anche alla storia personale di questo autore, da quando la comprensione delle loro poetiche ne ha segnato la formazione intellettuale ed emozionale.
Così, in queste pagine, la lezione di Carla Accardi, Afro, Alberto Burri, Giuseppe Capogrossi, Piero Dorazio, Lucio Fontana, Emilio Vedova si evidenzia simbolicamente in sette dipinti che, oltre ad appartenere materialmente a Miniati, gli appartengono interiormente per lunga consuetudine dello sguardo. Insieme a molti altri, questi quadri sono stati gli interlocutori di una convivenza intima, presenze imprescindibili sul suo cammino di pittore, in un dialogo silenzioso e rivelatore di cui ora egli vuole renderci partecipi, rivelando con aperta onestà la propria ascendenza ideale, per mettere criticamente in evidenza la potenza di certe radici. Radici nutrienti, direbbe lui, dapprima riconosciute da osservatore appassionato, e poi rielaborate nell’atto di dipingere, quotidianamente ripetuto con una disciplina del fare che davvero risponde alla sua esigenza di alimentarsi costantemente attraverso la poesia, l’armonia, l’invenzione.
Tanto che, in Miniati, la metafora dell’arte come nutrimento si esplicita persino in certe opere. Ad esempio in quella serie curiosa di piccole “scorte” cromatiche dove, abbandonato temporaneamente il pennello, egli costruisce textures di sottili pacchetti di pellicola trasparente per preservare le piccole quantità di colore ad olio avanzate sulla tavolozza alla fine di una sessione di lavoro: oltre l’apparente ironia, quasi un atto di devozione, nel rispetto di quella pittura in potenza che – come le briciole di pane sulla tavola degli onesti – sarebbe un peccato sprecare.

Valeria Tassinari