Nulla dies sine linea

Nell’entrare nuovamente in contatto con le opere di Roberto Miniati, a distanza di alcuni anni dai due volumi che insieme realizzammo, riscopro oggi un’artista più attivo che mai, capace di reinventarsi e di riformulare nuovi propositi creativi. Se oggi Miniati sembra trovarsi decisamente a suo agio con quell’insieme compositivo che è diventato nel tempo una “cifra stilistica”, un personale campo di indagine e ricerca sul “mistero del visibile”, lo si deve in definitiva a quel sistema di relazioni timbriche e spaziali che la sua pittura mette in atto, capace com’è di generare “figure” dai percorsi e dagli sviluppi ogni volta differenti.
Tolte le strutture più geometrizzanti che egli seguita occasionalmente a realizzare tassellando lo spazio in forme prismatiche, tutte le altre non occludono mai al loro interno il colore, per usare una metafora acustica non lo “insonorizzano”, esso semmai vibra e traspare, affiora e densifica soltanto in parte lasciando così intravvedere ogni singolo aspetto della sua conformazione: da tenue a forte, da opaco a lucido, la propensione di ciascun colore, primario o complementare che sia, viene sempre rispettata.
In questa orchestrazione di forme, dove nel suo realizzarsi ogni colore pondera i margini del suo fondersi o del suo isolarsi, Miniati dirige esemplarmente – occorre dirlo – i tasti della sua tavolozza, intensificando o ammorbidendo, di volta in volta, i toni dell’apparire policromatico. Dagli azzurri più tenui fino ai viola più luminosi per poi passare dal giallo all’arancio, agli ocra, fino alle terre di Siena e al verde smeraldo, ai grigi e ai bianchi antichi, al magenta e al rubino, non c’è superficie del quadro che non sia dipinto con la grazia di chi sente il colore affine a se stesso.
Già dal ciclo “Esigenze” emergevano le forme di un pensiero dinamico e plastico, su cui prevaleva non tanto l’analisi costruttivista, fredda e composta dell’astrazione geometrica quanto, piuttosto, come si evince da queste ulteriori prove, la caleidoscopica visione di una realtà interiore che trova un generale riscontro nella componente astratta più lirica e spirituale del Novecento. E il tentativo che mette in atto Miniati, è proprio quello di avvicinarsi all’invisibile, di neutralizzare le componenti ostative dell’io cosciente per approssimare quanto più possibile la sorgente della propria creatività, tentativo posto in essere fin dalle prime esperienze pittoriche con lo scopo come ebbe a dire lo stesso artista “di evocare l’immaginario più nascosto e impensabile che la nostra coscienza ordinaria altrimenti non potrebbe contemplare”. In sintonia con il dettato dell’arte contemporanea secondo cui “la realtà non può essere soltanto quella che ci appare”, Miniati s’è sempre posto l’obbiettivo di far emergere ciò che si nasconde dietro l’apparenza. Egli infatti sostiene che il colore “è il mezzo per arrivare nel profondo di me stesso e nel mio inconscio, aprendo così le porte delle mie emozioni”.
Accanto a questo “esercizio” continuo di messa a fuoco della propria interiorità, per cui ogni tassello, ogni sagoma del dipinto, finisce per diventare un singolo elemento imprescindibile del tutto, Miniati sposta la sua visione anche al cospetto di quello che definisce essere il “mistero del visibile”. Getta cioè uno sguardo su quanto è stato realizzato dagli artisti del passato facendosi deliberatamente contaminare. “Molti artisti hanno negato l’arte che ci ha preceduto definendola inutile – spiega Miniati – altri metaforicamente l’hanno azzerata dipingendo la tela con un solo colore come a cancellarla. In qualsiasi forma d’arte, nella fattispecie pittorica, esiste a mio avviso il mistero di quello che si è voluto cancellare e che giace sotto la nostra pittura”. Questo è appunto per l’artista romano “il mistero del visibile, il quinto lato della piramide, un lato che esiste ma non si scorge”. Ed è sulla base di questo proposito che Miniati, così come aveva già fatto nella serie dei “Maestri del colore”, anziché nascondere rende visibile il passato, poiché, tutto ciò che noi realizziamo – è inevitabile a dirsi – risente di ciò che è già stato fatto. I sedimenti della cultura, soprattutto nel campo delle arti visive (giacché la visione è un processo ineludibile e spesso inconsapevole), hanno la forza di esercitare occultamente la loro azione, di influire segretamente nelle nostre azioni, nei modi di pensare e di agire, e a maggior ragione un’artista non può non tenerne conto. Consapevole o meno che egli sia, finirà sempre con l’intercettare il passato.
Miniati, che diversamente da altri non ha mai nascosto di aver subito l’influenza di due grandi artisti dell’astrattismo come Maurice Estève e Serge Poliakoff, ultimamente ha voluto ancora una volta rendere omaggio ai trascorsi dell’arte dipingendo sopra delle tele antiche reperite nei mercati dell’usato (solitamente dei rifacimenti classici e di maniera), dimostrando ancora una volta “che la vecchia pittura” non soltanto può suggerire una nuova composizione, come egli effettivamente dimostra di poter fare, velando e scoprendo alcune parti del quadro antico, ma più sottilmente, in un approccio che volge al concettualismo e che si avvicina alla poetica di Jiří Kolář, Miniati ricorda a se stesso e agli altri che il passato non può scomparire del tutto e se mai lo volessimo di proposito nascondere, il nostro inconscio prima o poi lo ricondurrebbe in superficie.
Il tema dell’inconscio, quella parte nascosta all’interno dell’anima umana che volontariamente o meno tendiamo a sopprimere (“Io sono luce”; “Io sono ombra”, è a tal proposito il titolo di una sua opera), costituisce per l’artista romano uno dei momenti di più largo interesse e approfondimento. E’ bene chiarire che non si trova alcuna ragione per identificare la sua pittura con la corrente del surrealismo e tanto meno vi sono analogie con le fasi processuali di quel particolare dettato artistico. Miniati, conviene sottolinearlo, non è artista “onirico”, e la sua pittura non risulta afferente a nessuna delle tecniche in uso presso i surrealisti come il frottage, il grattage e il collage. Se la creatività degli artisti dell’inconscio è principalmente indotta dalle forze indistinte della nostra attività psichica, per Miniati il subconscio non è visto come forza dominatrice e trascinante. Pur essendo articolato e apparentemente casuale, il suo lavoro è sempre fondato sulla consapevolezza dell’azione pittorica. La regolarità e l’armonia delle forme dipinte, la loro reciproca adattabilità, costituiscono piuttosto un riflesso di un ordine interiore, o quanto meno un’evocazione anche soltanto immaginata o ispirata da un ordine che potremmo definire ideale.
Un ordine che Miniati ritrova anche nella geometria, le cui forme si conformano sì allo spirito (“ad formam geometricam spiritus conformans”), così come aveva teorizzato Kandinsky, ma analogamente presentano dei lati oscuri (“animi geometrice inexplorata pars”). Come il lato oscuro della luna che noi non vediamo ma che sappiamo essere morfologicamente il più accidentato, anche la parte sconosciuta e inesplorata di noi stessi presenta delle cavità, più o meno profonde, nelle quali preferiamo non addentrarci.
L’artista romano non si esenta dal ricordarci che alla luce corrisponde sempre la tenebra (Goethe affermava che non possiamo parlare di luce senza parlare anche di oscurità) e che il colore, analogamente a ciò che noi siamo, non può che rivelarsi dall’incontro tra la luce e la tenebra.
Miniati, così come si fa interprete della concezione unitaria dell’uomo (evitando gli equivoci odierni su una sua presunta unilateralità), si fa altresì interprete di una visione unitaria del mondo, così come è dimostrato testualmente dal trittico “Summ omaris fluctu; Super tellurem roboratam; In firmamenti immensitate”. Nel definire visivamente l’originaria conformazione del mondo in cielo, terra e acqua, Miniati si fa sostenitore dell’indivisibilità degli elementi, della loro reciproca comunicazione e influenza, dimostrando l’utilità – a mio avviso – che la terra ritorni ad essere considerata un organismo vivente, le cui funzioni vitali non siano messe in pericolo dal pervasivo – per quanto utile e necessario – progresso, ma vengano preservate e tutelate.
Con la sua pittura Miniati sembrerebbe allora porsi lo scopo di ripristinare l’originaria unità degli elementi, ponendosi al servizio di un occulto intendimento che opera indistintamente negli artisti, i quali, nella volontà di opporsi alla frammentazione del cosmo, quotidianamente lavorano (“Nulla dies sine linea”) per ricomporloe così ricucire le continue lacerazioni alle quali l’uomo non sembra più in grado di porre rimedio.

Michele Beraldo